A livello internazionale, i temi dell’economia della conoscenza e delle implicazioni organizzative e strategiche della conoscenza come risorsa sono riconducibili a moltissimi e importanti gruppi di ricerca, tanto che la letteratura di riferimento, ad oggi, è pressoché sterminata. Nel cercare di introdurre questo specifico framework teorico non ho intenzione di proporre una review o una personale ricostruzione delle vicende teoriche ed empiriche che ruotano attono ad una "generica" prospettiva knowledge-based: mi limito a richiamare il "particolare" (nel senso di "originale"... da ogni punto di vista, sic!) contributo fornito da Enzo Rullani.

Ad oggi non ho trovato una costruzione teorica che, tra "ragione e passione", fosse in grado di coniugare: da un lato una esigenza di "compattezza" e "coerenza" dal punto di vista della sua "struttura" logica; e, dall'altro, una intima "necessità intellettuale" di cercare anche un modo ragionevole per osservare quei fenomeni "reali" che sono davvero in grado di attirare la mia attenzione e curiosità scientifica. Provare ad abbracciare questa sorta di percorso antropologico nelle scienze sociali, umilmente ma con tenacia, è risultato quasi una questione di "affinità elettive" (sic!).

Qui di fianco, alcune pubblicazioni, sebbene solo parziali, permettono in prima approssimazione di evidenziare cosa significhi veramente declinare nel tempo un percorso intellettuale che conduca a ciò che in precedenza ho cercato di definire come “programma di ricerca”. 

Che non si tratti di una questione di poco conto lo testimonia la scelta di assegnare i premi Nobel all’Economia del 2009 a «Elinor Ostrom “for her analysis of economic governance, especially the commons” and Oliver E. Williamson “for his analysis of economic governance, especially the boundaries of the firm”» (fonte: nobelprize.org). A tal proposito, ripropongo due commenti differenti: una nota di Enzo Rullani; una pagina de “Il Sole 24 Ore” del 19 ottobre 2009.

Diversi fenomeni, a lungo abbandonati o solo parzialmente oggetto di attenzione da parte degli studiosi di economia e di management, sono riconducibili a quell’agire collettivo che trova molto spesso manifestazione nelle regole di funzionamento di vere e proprie istituzioni: depositarie della memoria di intere comunità o rappresentazione di reti d’azione dai confini apparentemente sfocati, queste istituzioni non sono facilmente riconducibili a relazioni di mercato e permettono la gestione di conoscenze sotto forma di beni comuni dalla natura ambigua ed estremamente sfuggenti dal punto di vista della teoria mainstream.

Da questo punto di vista, vi è un legame, neppure troppo sottile, tra situazioni reali che, sebbene sembrino venire alla ribalta in epoca moderna e siano particolarmente d’attualità, di fatto non sono completamente nuove: la ricerca di modelli organizzativi che possano garantire la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano; la gestione dei processi di trasferimento tecnologico nel mondo della ricerca scientifica; la regolazione delle filiere “cognitive” che ruotano attorno ai creative commons, al crowdfunding o all’imprenditorialità “diffusa” pubblica e privata; l’emergere e il continuo ripetersi di crisi finanziare o di crisi organizzative che, rispettivamente, mettono a dura prova la fiducia degli investitori o la consapevolezza e l’affidabilità che dovrebbero guidare l’agire dei sistemi complessi che creiamo; le logiche di “appropriazione/espropriazione” del valore messe in atto dalle aziende in alcuni processi di consumo, tanto da sviluppare la reazione di comunità di consumatori o cittadini attraverso fenomeni di resistenza e antagonismo ai contesti di consumo, o di eversione e trasformazione sociale dei mercati.

I tre episodi proposti (alcuni tra i tanti che avrei potuto richiamare) riportano altrettante situazioni oggetto di studio e riconducibili a ciascuno dei successivi framework teorici. Il fine è di presentare come la prospettiva knowledge-based abbia quel ruolo fondativo, dal punto di vista teorico, nel mio personale percorso di ricerca, tanto quanto sono rilevanti e costitutive le riflessioni di metodo esplicitate in precedenza. Il commento a questi tre episodi è un tentativo (spero non troppo distorto) di introdurre la complessa costruzione teorica della economia della conoscenza "à la Rullani". Le figure che accompagnano il commento sono tratte direttamente dal libro "La fabbrica dell'immateriale" (2004b). 

Scena #01 - Il fenomeno dei “blue jeans”

San Francisco (USA), Archivio della Levi Strauss & Co. La storica Lynn Downey conserva gli esemplari più preziosi della storia dell’azienda in un armadio blindato ignifugo: tra gli altri, quelli chiamati “Nevada jeans”, ritrovati per caso da due cowboys nel 1993.

Lynn Downey (Storico Levi Strauss & Co.): «Questi sono i famosissimi “Nevada jeans”. Questo è il paio di jeans che abbiamo acquistato su eBay nel 2001 per 46,532 $. Ma non è un paio di Levis 501: quando siamo venuti a sapere di questi pantaloni non conoscevamo l’esistenza di questo modello. Possiamo dire che è un “modello zero”, ma ha già un design ben definito e probabilmente la caratteristica più interessante è la tasca che si trova sulla coscia sinistra: serviva per infilarci un metro di legno a stecche, quindi sono pantaloni da falegname. Inoltre sappiamo che questi jeans sono stati trovati in una città mineraria in Nevada, e nelle città minerarie c’erano falegnami, perciò è probabile che appartenessero ad uno di loro»

Lynn Downey: «Questo è il più antico paio di jeans del mondo. Non sono forse dei jeans che si potrebbero indossare anche ai nostri giorni? E’ questo che amo di loro: puoi camminare per strada con indosso questi pantaloni e nessuno si accorgerebbe che hanno quasi 135 anni. Ma provate ad indossare un vestito da uomo del 1879, e tutti vi chiederanno: “Vai ad una festa in maschera?”».

Quanti jeans avete già visto oggi? In metro, a scuola, per strada, al ristorante, al lavoro: tutti li indossano, tutti possediamo almeno un paio di jeans. Gli Stati Uniti ne producono 450 milioni all’anno: una mania blu che si è impadronita della terra. I jeans sono resistenti, intramontabili. Nati nel XIX secolo, hanno attraversato guerre e rivoluzioni, entrando poi con passo deciso nel nuovo millennio, sempre eternamente giovani. Prodotto a basso costo nelle industrie del Terzo Mondo e destinato ad invadere i mercati dei grandi Paesi industrializzati, il jeans è l’emblema della globalizzazione. Ma i jeans, lo sappiamo, hanno tanti difetti: si scolorano, si strappano, si logorano sulle ginocchia, e le cuciture si consumano: però, malgrado tutto, incarnano un modello di comfort e resistenza. Dal bambino al nonno, dalla star alla persona comune, dal ricco al povero, magri o meno magri, tutti indossano il jeans perché incarnano e sempre incarneranno la modernità e la moda, sicché la vera domanda è: “Perché i jeans?”, “perché un successo così grande?”.

Facciamo un piccolo salto all’indietro. Tutto inizia come nei vecchi film western: alla fine di una strada polverosa che porta da San Francisco fino ai confini dell’Arizona. Siamo nel 1873 e già da vent’anni la Levi Strauss Co., fondata dall’immigrato ebreo-tedesco, rifornisce i mercati generali dell’America dell’Ovest che, a loro volta, riforniscono cowboys e minatori. Levi Strauss vende di tutto: pale, picconi, lanterne, pentole, coltelli; ma anche scarpe, mutande, camicie e tute da lavoro. Queste ultime fatte spesso con un resistente tessuto blu, il denim.

Lynn Downey: «Sarebbe rimasto un grossista di tessuti per sempre, ma un giorno, nel 1872, riceve una lettera da Jacob Davis».

“Caro Signor Levi Strauss, una delle mie clienti, moglie di un minatore, è entrata nel mio negozio lamentandosi che le tasche delle vostre tute, dove il marito tiene gli attrezzi, non sono abbastanza resistenti”. In quel momento stava fissando delle cinghie di pelle su una coperta da cavallo usando dei rivetti di rame e gli è venuta un’idea.

Lynn Downey: «Voleva proteggere la sua invenzione e far sì che nessuno gliela rubasse. Ma aveva bisogno di un socio: fu così che Levi Strauss e Jacob Davis depositarono il primo brevetto americano sulla fabbricazione dei blue jeans nel maggio del 1873». Rivetti di rame per rinforzare le tasche di un pantalone da lavoro fatto di denim: nascono i jeans.

Lynn Downey: «A comprare i jeans erano lavoratori, operai, cercatori d’oro, e poiché questi pantaloni duravano di più, li facevano risparmiare oltre a proteggerli durante il lavoro. Fu una innovazione incredibile».

Ma Jacob Davis e Levi Strauss non inventano solo i jeans: hanno un’altra rivoluzionaria idea. Dietro i pantaloni, proprio sopra l’unica tasca, fecero un quadrato di cuoio, un patch, che riporta la marca e un disegno che diventerà leggendario: due cavalli che tentano di strappare un paio di jeans. E’ un concetto innovativo: i clienti della Levis erano per lo più analfabeti perciò volendo comprare un paio di pantaloni resistenti non devono dire altro che “Voglio quelli con i due cavalli”. 140 anni dopo l’idea ancora resiste»

(fonte: “Jeans, il fascino del pianeta blu”, documentario ARTE). 

Scena #02: l’ideologia collettiva del “teatro popolare”

Il “teatro popolare” al Festival di Avignone (Francia): «In definitiva, il miglior riconoscimento per Avignone è quello di avere aiutato, con l’esempio e la pratica, attraverso la perseveranza e, per dio, attraverso la creazione, a trasformare la nozione stessa di spettacolo, facendo in modo di agevolare la nascita e quindi l’espansione disinteressata, a gettare le basi stesse, di una cultura al servizio di tutti o, almeno, a disposizione di tutti. Forse – e non si dovrebbe temere di chiederselo – forse la creazione di una autentica cultura popolare costituisce una illusione romantica. Essa è mai esistita? Questo teatro comunitario che tutti o quasi tutti sognamo, intendo dire questo teatro non a tutti i costi rivoluzionario o impulsivo, ma che naviga con sicurezza controcorrente rispetto alle abitudini, alle tradizioni comode ed ecumeniche, alle politiche correttamente fissate, ai diritti acquisiti, il teatro per il popolo, per il popolare, per il lavoratore delle città così come per quello delle periferie più isolate, questo teatro non è altro che una utopia necessaria? Non è che un ideale? Come l’uguaglianza? O la libertà? Nonostante questa visione apparentemente pessimista della nostra impresa noi non ci siamo mai arresi nel nostro agire di sempre. Noi continuiamo e continueremo»

(fonte: conferenza stampa di Jean Vilar, marzo 1969, tratto da Théâtre, service public).

«Molti hanno confuso la missione di Avignone e la missione del TNP, e naturalmente hanno unito a questa confusione le idee politiche che essi stessi mi attribuivano – conservatrici o rivoluzionarie – o che avrei espresso più o meno chiaramente. Che cosa è il TNP? E’ un teatro politico o, invero, un teatro impegnato in tutti i tipi di querelle, dal 1951 al 1963. E questo, al di là di quali fossero le opere scelte, siano esse le più antiche, siano esse le più classiche e certamente non meno politicamente attuali [...] rispetto alle più moderne [...].

Cos’è e cos’era, al contrario, Avignone? Un luogo di incontri pacifici, di riflessione, di ricerca di un pubblico unito in una società evidentemente divisa. Un luogo di confronto tanto di idee quanto di stili, di ideologie e di morali.
Da quindici anni dico che la teoria fondamentale consistente a lasciare intendere che la rivoluzione efficace arrivi attraverso il teatro non è solamente falsa, non solo è una sciocchezza, ma è una ipocrisia. La mia teoria, la mia ideologia, il mio lavoro erano, lo confesso, più modesti, ma anche molto più efficaci. L’ho già formulato in modo simile: svegliare, provocare, sviluppare, aguzzare la riflessione degli spettatori delle classi lavorative»

(fonte: una nota di lavoro di Jean Vilar, pubblicata in Théâtre, Service Public, 1971).

Il “teatro come servizio pubblico”: il Piccolo Teatro di Milano (Italia): «Ragioni culturali ma soprattutto ragioni economiche tengono lontano il popolo dal teatro, mentre il teatro, per la sua intrinseca sostanza, è fra le attività la più idonea a parlare direttamente al cuore e alla sensibilità della collettività, mentre il teatro è il miglior strumento di elevazione spirituale e di educazione culturale a disposizione della società. Noi vorremmo che autorità e giunte comunali, partiti e artisti si formassero questa precisa coscienza del teatro, considerandolo come una necessità collettiva, come un bisogno dei cittadini, come un pubblico servizio alla stregua della metropolitana e dei vigili del fuoco, e per questo preziosissimo pubblico servizio nato per la collettività, la collettività attuasse quei provvedimenti atti a strappare il teatro all’attuale disagio economico e al presente monopolio di un pubblico ristretto, ridonandolo alla sua vera antica essenza e alle sue larghe funzioni».

(Paolo Grassi, “Teatro, servizio pubblico”, articolo su L’Avanti del 25 Aprile 1946).

«Questo teatro nostro e vostro, il primo teatro comunale d'Italia è promosso dall'iniziativa di taluni uomini d’arte e studio, che ha trovato consenso e aiuto nell’autorità fattiva di chi è responsabile della vita cittadina. Noi non crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvivenza di abitudini mondane o un astratto omaggio alla cultura. Il teatro resta il luogo dove la comunità, adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa; il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni»

(Manifesto programmatico del Piccolo Teatro di Milano, 1947)

Scena #03 - Il senso della comunità, il “caso-Olivetti”

«C’è stato un momento, a metà degli anni ’60 del XX secolo, in cui un’azienda italiana ebbe l’occasione di guidare la rivoluzione informatica mondiale, dieci anni prima dei “Ragazzi della Silicon Valley”, di Steve Jobs e Bill Gates: una rivoluzione tecnologica che aveva le sue radici in una rivoluzione culturale e sociale, in un modello industriale pensato al di là di socialismo e capitalismo, e che il suo promotore, Adriano Olivetti, aveva cominciato a sperimentare sin dagli anni ’30, a Ivrea, in provincia di Torino. La Olivetti era arrivata ad essere la più grande azienda italiana, con il maggior successo commerciale internazionale, capace di coprire un terzo del mercato mondiale del suo settore: una multinazionale atipica, con un forte radicamento territoriale, caratterizzata da politiche sociali avveniristiche, formazione permanente e attività culturali di respiro internazionale che furono il segreto del suo successo commerciale e non la conseguenza filantropica o mecenatistica dei suoi profitti. In che consisteva tale modello imprenditoriale, che promuoveva anche un modello alternativo di società e che condusse alle soglie della più grande occasione industriale che l’Italia abbia mai avuto?

[...] All’organizzazione commerciale la Olivetti aggiungeva altri tre parametri che costituivano la barriera all’ingresso degli outsider: l’innovazione, cioè il controllo e il dominio dei processi e delle tecnologie; la formazione; e una organizzazione capace di trasformazioni e di rilanci formidabili. Al centro di tutto, però, era la qualità del prodotto, garantita dalla ricerca scientifica e dallo sviluppo di prototipi all’avanguardia che ponevano spesso l’Olivetti in condizioni di operare in assenza di concorrenza e di imporre per ciò prezzi altamente remunerativi per l’azienda.

Gastone Garziera (Laboratorio di Ricerche Elettroniche di Borgo Lombardo): «Adriano fondò il Laboratorio di Ricerche Elettroniche che si sapeva benissimo avrebbe dato dei risultati a distanza di un decennio [...]: uno che lavora vedendo profitti a distanza di dieci anni per garantire la sopravvivenza dei suoi figli e della azienda è una visione completamente diversa da chi dice “se non mi conviene vendo e compro qualcos’altro”»

Già nel 1949 Enrico Fermi aveva richiamato l’attenzione di Adriano Olivetti sui possibili sviluppi dell’elettronica: dopo un periodo di studi svolto in un centro ricerche di elettronica avanzata aperto nel 1952 negli Stati Uniti, nel 1954 Adriano decide di investire ingenti capitali in campo elettronico, prima in collaborazione con l’Università di Pisa su un progetto dello stesso Enrico Fermi; poi, su sollecitazione del figlio Roberto, Olivetti nel 1955 ha lanciano un progetto per un calcolatore per scopi industriali e commerciali tutto Olivetti. Adriano incarica Mario Tchou, un ingegnere poco più che trentenne che Roberto ha conosciuto alla Columbia University, di progettare il primo calcolatore elettronico tutto italiano. Attorno a lui si raccoglie un gruppo di ancor più giovani ricercatori che operano prima a Barbaricina presso Pisa, poi a Borgo Lombardo e infine a Pregnana, sempre vicino a Milano. Nel 1959 venne presentato al Presidente della Repubblica Gronchi il grande calcolatore Olivetti Elea 9003, il miglior supercomputer dell’epoca, il primo sistema al mondo completamente transistorizzato. Roberto Olivetti è il convinto fautore della nuova linea strategica dell’azienda. Sempre nel 1959, l’acquisto della Underwood, la mitica azienda americana che aveva ispirato i primi progetti di Camillo segna un momento apicale della crescita dell’Olivetti e allo stesso tempo un punto di svolta problematico. La Underwood si rivela una scatola vuota. Adriano sa come trarne comunque vantaggio: prevede di ridurre il numero delle linee di produzione della Underwood in America e di potenziarne la già diffusa e capillare rete commerciale in modo da spalancare il mercato Nord e Sud Americano ai prodotti Olivetti, per capovolgere in una opportunità la situazione sfavorevole, come rivela ai collaboratori suoi più vicini partendo per il suo ultimo viaggio. Il 27 febbraio 1960, in treno, solo, mentre si reca in Svizzera e mente a Ivrea impazza il Carnevale, Adriano colto da un malore muore. In tasca ha il progetto della Fondazione Ingegner Camillo Olivetti, nella quale avrebbe voluto trasformare l’assetto proprietario dell’azienda. La proprietà avrebbe dovuto essere suddivisa in quattro parti: un 25% alla Comunità, un 25% alla più vicina Università, un 25% alla proprietà storica di azionisti e alla famiglia, un 25% ai lavoratori. Una “proprietà plurale” era definita, intesa a riunire stabilmente le forse sociali avanzate espresse dall’età industriale e a renderle strutturalmente tutte corresponsabili delle linee strategiche dell’azienda, per l’immediato bene comune e per quello delle future generazioni: una forma di proprietà né individuale né familistica, né collettivistica né meramente pubblica, ma non più privata, che egli preferiva di gran lunga al triste ed inevitabile destino di tutte le imprese delle grandi famiglie del capitalismo mondiale, la dispersione della proprietà in un azionariato impersonale globalizzato in balia di scelte incontrollabili, nelle mani di un management troppo libero e irresponsabile che avrebbe potuto primo o poi condurre alla morte della “Fabbrica”, come Adriano continuava a chiamare la Olivetti, e con essa alla fine della sperimentazione sociale “comunitaria” che dalla “Fabbrica” traeva alimento e che l’elettronica avrebbe potuto continuare ad alimentare. Roberto Olivetti condivide in pieno le idee strategiche del padre riguardo l’elettronica ma fatica a farle prevalere: ha contro le perplessità del resto della famiglia e del management tradizionale legato alla meccanica. La morte di Mario Tchou in un incidente automobilistico, l’anno dopo la scomparsa di Adriano, aggrava la situazione.

Nel 1962 è fondata la divisione elettronica dell’Olivetti ma l’azienda versa in una grave crisi di capitali e necessita di finanziatori esterni alla famiglia: l’assenza di Adriano coincide con il momento di maggiore esposizione e fragilità non sempre senza compiacimento da parte dell’establishment politico, economico e sindacale italiano, per cui l’Olivetti costituiva una paradossale anomalia culturale. Il “gruppo di intervento” costituito da Mediobanca, Banca Centrale, FIAT, Pirelli e IMI investe a sostegno della Olivetti ma Vittorio Valletta, amministratore delegato della FIAT, pone come condizione che l’elettronica, da lui definita come un “neo da estirpare”, venga ceduta, forse anche in seguito alle pressioni della concorrente IBM, operate tramite canali diplomatici internazionali. Roberto cerca alternative, altri finanziatori, interpella l’IRI, cerca di mettere insieme un pool di aziende europee, ma senza successo. L’elettronica dei grandi calcolatori, settore strategico mondiale del momento, viene ceduta alla Generale Electric americana: Roberto Olivetti riesce a conservare un gruppo di ricerca per i piccoli calcolatori, quelli da tavolo.

Il nuovo gruppo di ricerca con a capo l’ingegner Perotto, partendo dalla tecnologia sviluppata per il calcolatore Elea, produce in poco tempo la Programma 101, un vero e proprio personal computer ante litteram, che la Olivetti concepisce e lancia come calcolatore scientifico e del quale, con colpevole ritardo, se ne comprenderà il possibile sviluppo commerciale di massa per uso personale. La Programma 101 partecipa alla prima missione NASA sulla Luna, viaggerà a bordo dell’Apollo 11: un esito inimmaginabile al momento delle prime ricerche avviate venti anni prima.

Nel discorso inaugurale della fabbrica di Pozzuoli [realizzata nel 1955, con relativo quartiere operaio, riproducendo l’organizzazione della fabbrica di Ivrea, secondo la logica di portare i capitali laddove era la forza lavoro] Adriano si rivolge ai lavoratori con queste parole:

«Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente all’indice dei profitti?

Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica? Possiamo rispondere: c'è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea, come a Pozzuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell'opera che abbiamo intrapresa. Perché una trama, una trama ideale al di là dei principi della organizzazione aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del suo fondatore, l'opera della nostra Società.

Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor del tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un'impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell'uomo e della società moderna. La fabbrica di Ivrea pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all'elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta.

La nostra società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell'arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto»

(fonte: “In me non c’è che futuro”, documentario prodotto da STTVA Films, trasmesso da Rai Storia)  

L' economia della conoscenza e il management dell'immateriale, secondo Enzo Rullani:

L’economia della conoscenza non è un paradigma nuovo che di recente si è affacciato sul mercato delle idee (con alterne fortune): come molti fenomeni che sfuggono alla comprensione perché si tende a semplificare il punto di osservazione sulla realtà; essa è semplicemente un modo attraverso cui è possibile superare un artificio metodologico che a lungo ha permesso di osservare separatamente solo una serie di variabili collegate o derivate (le macchine, il capitale finanziario, l’organizzazione, il capitale umano o il social capital). Il rischio principale di perdere di vista il “tutto” a vantaggio di una delle sue “parti” è quello di pretendere di ricondurre il “tutto” alla “parte” su cui le varie prospettive teoriche e i differenti paradigmi prestano di volta in volta attenzione.

In altri termini, una economia della conoscenza c’è sempre stata nell’alternarsi dei vari paradigmi che hanno attraversato la storia economica: sicché la questione non è quella di “costruire” teoricamente una economia della conoscenza quanto piuttosto di riconoscerne “lavorazioni” e “caratteri” che la possano rendere “visibile” agli occhi di quanti si prendano la briga di volerne gestire i processi di creazione del valore.

Ad esempio, siamo abituati a pensare ai beni materiali (ad un impianto produttivo, alle attrezzature di un laboratorio scientifico, ad un paio di jeans o ad una macchina da scrivere) come una volta per tutte “spazialmente” localizzati e “temporalmente” funzionali e attuali: a ben vedere la “risorsa” conoscenza con cui abbiamo a che fare da tempo è sempre più “fluida” e in grado di propagarsi “percorrendo” lo spazio e “attraversando” il tempo e queste caratteristiche finiscono ineludibilmente con l’essere parte integrante dei prodotti che da questa risorsa discendono: siano essi dei modelli culturali di consumo; una idea “estetica” del bene pubblico che oggi siamo abituati a chiamare “commons”; o un modello di vita declinato non solo come modello produttivo o “modello imprenditoriale”, ma in una prospettiva culturale, come nelle polis della Grecia del V secolo e che trovava la propria rappresentazione nella “Tragedia” nell’Attica antica.

Cosa succede quando la conoscenza, non già risorsa “residua” o “complementare” rispetto a capitale e lavoro, diventa “il” «principale fattore produttivo, [nonché] il principale prodotto ottenuto dai processi produttivi» (Rullani 2004b: p. 23)? Riscoprire questo processo circolare (“riflessivo”) in cui l’output dei processi economici deve “rigenerare le proprie premesse” comporta riposizionare in modo non banale l’economia e il management (semmai si fossero spostate - sic!) nell’alveo delle scienze sociali “cugine” che da tempo si rivolgono all’indagine dei comportanti umani, rendendo così “nuovamente” visibili processi cognitivi che nella storia economica abbiamo imparato ad osservare, via via, in modo non già distorto, ma quantomeno parziale. Con le parole di Enzo Rullani (2004b: corsivo originale): 

(1) l’economia della conoscenza è, necessariamente un’economia di filiera, non di singola impresa. La produzione del valore non è analizzabile a livello di singola impresa, ma solo esaminando il circuito complessivo che la porta dal produttore ai molti utilizzatori e che comprende sempre [...] una pluralità di contributi, si punti di vista, di significati possibili;

(2) la conoscenza è una risorsa moltiplicabile, che non si consuma con l’uso. Di conseguenza, può essere propagata, dalla filiera, in un bacino di uso sempre più vasto, moltiplicando anche il valore prodotto;

(3) per produrre valore attraverso la propagazione della conoscenza bisogna intraprendere processi creativi, che interpretano la conoscenza e il contesto in cui deve essere impiegata. Non bastano processi meramente riproduttivi, affidabili a qualche automatismo. Servono invece immaginazione, capacità di esplorazione e attitudini riflessive, ossia molto più del semplice calcolo di convenienza. 

La creazione del valore in una economia della conoscenza “reale” comporta considerare tre fattori/drivers tra loro interdipendenti (“efficacia-v”, “moltiplicatore-n” e “coefficiente di appropriazione-pi”) che permettono di considerare altrettante caratteristiche della conoscenza che la teoria economica tende a semplificare: la conoscenza è contemporaneamente personale, sociale e proprietaria a seconda di come vengono combinati i fattori procedenti, della priorità con cui tali fattori vengono chiamati ad operare come in una sorta di “trade off metodologico” e, in termini di processi, sulla base della tipologia di macchinari cognitivi chiamati a trasformare la conoscenza originaria in conoscenza pronta all’uso in contesti sempre nuovi.

Ciascuno dei tre “episodi” richiamati permette di assumere un punto di osservazione differente dei rispettivi fenomeni ma questo solo nel momento in cui ci si persuade del fatto di essere di fronte a “conoscenze” che hanno subito trasformazioni riconducibili a combinazioni di “lavorazioni cognitive” a cui, per troppo tempo, l’economia e il management hanno prestato pochissima attenzione (Rullani 2004a, 2004b).

In primo luogo, la conoscenza può essere “valida”, nel passaggio da un contesto d’uso ad un altro, attraverso diverse “strutture logiche” e non solo sotto forma di “dati” e “informazioni”. Ad esempio: nel racconto della storia dei “blue jeans”, piuttosto che spiegare i processi di acquisto può essere molto più interessante comprendere l’evoluzione dei processi di consumo riconducibili ad un capo di abbigliamento che, coerentemente con il proprio utilizzo originario, non doveva essere null’altro che, funzionalmente, un indumento da lavoro. Allo stesso modo diventa complicato immaginare il caso Olivetti in termini di “formula imprenditoriale” razionalmente prodotta dal suo fondatore sotto forma di un “automatismo isomorfico”, generato dalle prassi e dalle formule organizzative dell’epoca, senza pensare invece alla costruzione di un linguaggio condiviso all’interno di una “comunità” che in buona sostanza è il frutto del contesto in cui opera e che essa stessa contribuisce a generare.

La “riproduzione” della conoscenza può avvenire attraverso forme di “virtualizzazione” molto più complesse di quelle che siamo disposti ad accettare come studiosi di management: quando i jeans smettono di essere un “oggetto” e diventano “una cosa/un artefatto”, nel momento in cui miti e riti specifici di una comunità epistemica diventano oggetto di una “politica culturale” legittimata e coerente, e quando cultura ed estetica danno forma a modelli produttivi centrati sul concetto di territorio; diventa difficile utilizzare l’armamentario tradizionale degli studi di economia e management per comprendere fenomeni “reali” di tale portata. Nonostante la loro evoluzione, il loro successo, le criticità che hanno incontrato, e il fatto stesso che siano esistiti e siano osservabili, tali fenomeni rischiano di essere etichettati dalla teoria mainstream come la manifestazione di schemi di comportamento “devianti”: come tali, vanno ricondotti all’interno di una cornice costruita sulla base di quelle stesse regole che definiscono “devianti” le “altre” rappresentazioni del fenomeno stesso.

Ancora, la “logistica” della conoscenza non avviene solo attraverso la versione “semplificata” del knowledge management, attraverso lo stoccaggio di informazioni che, per quanto complesse, devono però subire un processo di codificazione che ne permetta la localizzazione spazio-temporale da parte di chi le ha prodotte e ne vuole mantenere il controllo proprietario. Ma la sua “distribuzione” dovrebbe salvaguardarne il carattere fluido, nello spazio e nel tempo: nel caso del “Teatro popolare”, una idea collettiva di bene pubblico si è diffusa a livello mondiale attraverso rapporti diretti tra i protagonisti di una vicenda umana che ha assunto presto i connotati di un circuito “globale”, di una “intelligenza collettiva” diffusasi attraverso i flussi estetici generati dal teatro, la più arcaica ed effimera delle arti che l’uomo abbia prodotto.

Infine, la conoscenza non è “relazionale” solo attraverso le formule a cui siamo abituati (il mercato o la gerarchia), tanto da cercare di ricondurre a questi modelli “noti” fenomeni che permettono una integrazione della conoscenza con modalità “altre”, ma altrettanto capaci di regolarne coerenza e affidabilità: ad esempio, Adriano Olivetti non solo ha prodotto una formula imprenditoriale “realmente praticata” e di “successo”; ma il concetto di “comunità”, il rapporto con il “territorio” e l’idea di “rete” nel caso Olivetti ha permesso di governare le regole di scambio e le pratiche condivise riconducibili ad una intera filiera cognitiva. Non si trattava di un modello di gestione delle relazioni, tanto industriali quanto a livello di sistema produttivo o distrettuale, coerente con i modelli di business e le rappresentazioni “teoriche” che andavano per la maggiore nelle business school americane e nei manuali di economia: eppure tale modello relazionale ha portato l’Olivetti letteralmente ad un passo dal generare un settore, l’ICT, che all’epoca dei fatti ancora non esisteva. 

Bibliografie ragionate (in progress)

  • Di Bernando B., Rullani E. (1985), Transizione tecnologica e strategie evolutive: l’impresa industriale verso l’automazione, Cedam, Padova; 
  • Di Bernando B., Rullani E. (1990), Il management e le macchine. Teoria evolutiva dell’impresa, Il Mulino;
  • Grandinetti R., E. Rullani (1996), Impresa transnazionale ed economia globale, La Nuova Italia Scientifica, Roma;
  • Rullani E. (2004a), Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, Carocci, Roma;
  • Rullani E. (2004b), La fabbrica dell’immateriale. Produrre valore con la conoscenza, Carocci, Roma;
  • Rullani E. (2010), Modernità sostenibile. Idee, filiere e servizi per uscire dalla crisi, Marsilio, Venezia.