Nei passaggi precedenti ho cercato di enfatizzare l’idea che, in termini di teoria dell’impresa, non è considerato particolarmente azzardato considerare le conoscenze delle organizzazioni e le esperienze del vissuto quotidiano di coloro che le creano e le popolano come questioni di una certa rilevanza per i discorsi sulla gestione (possibilmente di successo) di una impresa.

In questo filone di ricerca, accostando gli studi di management a quelli culturali e alla teoria letteraria, con modalità che ai più potranno sembrare singolari, cerco di affrontare la questione della rappresentazione/interpretazione delle conoscenze attraverso la mia irrefrenabile predilezione per le storie che guidano le “nostre vite organizzative”. Anche in questo caso: che le narrazioni costituiscano una affascinante fonte del sapere e della pratica organizzativa non costituisce in sé una affermazione sconvolgente. La questione ben più gravosa è quella di “essere in grado” di far fronte all’utilizzo di tali complessi materiali, vale a dire riconoscere l’esigenza di dotarsi di strumenti adeguati per interpretare (adeguatamente) le narrazioni che produciamo, ascoltiamo o leggiamo. Servirsi delle logiche narrative in modo “superficiale” può risultare infatti piuttosto facile e magari, improvvisandosi “guru” del management, anche “redditizio”. Per contro, adoperare in modo consapevole le narrazioni significa considerarle come una conoscenza ottenuta attraverso la combinazione di specifiche “lavorazioni”, realizzate in “reparti” altrettanto specifici della “fabbrica della conoscenza”, tali da renderla specificatamente valida, riproducibile, distribuita e integrata (Rullani 2004).

Se il collegamento tra questo filone e il primo che ho proposto è forse il più complicato da accettare; quello con il filone precedente sull’istituzionalismo è presto fatto. Mi è sufficiente richiamare lo splendido lavoro di Barbara Czarniawska (1997), Narrare l’organizzazione. La costruzione dell’identità istituzionale. In particolare, nel capitolo 9, in un passo illuminante che vale la pena leggere con attenzione, Barbara Czarniawska scrive: 

«Tradizionalmente la descrizione della vita sociale comincia specificando le sue unità fondamentali, gli attori individuali, e continua seguendo le interazioni che si sviluppano tra loro (le transazioni economiche, per esempio); queste infine si stabilizzano per diventare strutture, che a loro volta agiscono come vincoli sulle interazioni seguenti (si noti che questa interpretazione degli sviluppi sociali segue le regole della narrazione convenzionale). Tuttavia, proprio la nozione di “unità di base” viene ora criticata. Una nozione emergente dell‘“io relazionale” [...] postula come i soggetti fondamentali o centri di interesse della analisi le relazioni, invece delle “unità” esistenti nella “realtà”. Una data (o piuttosto selezionata) rete di relazioni si può pensare che produca sia identità (“attori”) che istituzioni (“strutture”).

Parafrasando la terminologia di Callon [...] e Latour [...], ho reso le reti d’azione il centro d’interesse principale dell’analisi. Queste prospettiva nega la gerarchia convenzionale dei “livelli di analisi”, con le loro etichette “individuo”, “gruppo”, “organizzazione”, “società”. Le reti d’azione non sono né persone né gruppo; possono essere grandi (trasversali a molti campi d’organizzazione) o piccole (un progetto); il centro d’interesse dell’analisi può essere una combinazione o collezione di tali reti (un campo organizzativo). E’ dalla rete d’azione che deduciamo quali attori sono coinvolti, e non viceversa. Ciò significa, per esempio, che la rete continuerà a esistere anche quando gli attori saranno sostituiti da altri, oppure quando gli attori originari cambieranno la loro identità (possono diventare macchine), anche se questo implica sempre anche un cambiamento nel carattere della rete; significa che la rete mutante può sollecitare un cambiamento dell’identità degli attori [...], che gli attori possono essere di status misto (umani e non umani; [v. ancora Latour]) - un fatto che non noteremmo se guardassimo esclusivamente agli attori umani e alle loro interazioni. L’adozione di questo punto di vista implica che il vecchio dibattito su cosa viene prima - l’attore o la struttura - è risolto, o piuttosto è dissolto dal fatto che viene data la priorità ad azioni che, quando sono ripetute, producono e riproducono se stesse, le identità individuali e le istituzioni di un dato campo». (pp. 244-245).

Il lettore attento avrà trovato facilmente i richiami a buona parte della letteratura e delle prospettive che ho introdotto nei due precedenti programmi di ricerca. Tanto per sottolineare quanto delicato sia il tema della narrazione, delle storie organizzative e dello stile per quel particolare genere letterario che è la “scrittura scientifica” suggerisco la lettura di questi saggi di Barbara Czarniawska (Czarniawska 2010, 20092003).

Da questo punto di vista le ricerche di Karl Weick costituiscono per me (ed evidentemente non solo per me - sic!) un costate punto di riferimento. Nel suo famoso articolo sulla tragedia di Mann Gulch (Weick 1993), e in molta parte della sua sterminata produzione scientifica, Weick ha avuto modo di dimostrare come il materiale d’archivio, le storie “ben raccontate”, le “autobiografie organizzative” ben scritte, i racconti “di prima mano” o riletti “in terza persona”, nel caso in cui si sia in grado di farne buon uso, costituiscano del materiale di estremo interesse per gli studiosi di management. E il libro di Norman Maclean su quel tragico evento, Young Men and Fire, costituisce davvero una appassionante lettura.

All’interno di questo filone di studio le storie che “raccolgo” e di cui “vado alla ricerca” hanno caratteristiche molto diverse tra loro in termini di tematiche ma presentano in comune l’aspetto dell’inatteso (non da ultimo il recente libro scritto da Karl Weick e Kathleen M. Sutcliffe si intitola proprio: “Managing the Unexpected”, John Wiley, 2007). Parte di un più generale interesse per le logiche del pensiero congetturale e del ragionamento abduttivo quali modalità interpretative e di creazione della conoscenza nelle scienze sociali; sono convinto che la fenomenologia di “eventi” come le crisi organizzative e i “disastri causati dall’uomo” metta a dura prova le “nostre” convinzioni (di scienziati sociali) sul comportamento umano e sul funzionamento di organizzazioni e istituzioni. “Man-made-disaster” è una felice espressione utilizzata da Barry A. Turner in un suo studio, apparso anche in italiano qualche anno fa: Disastri. Dinamiche organizzative e responsabilità umana, (Barry A. Turner e Nick F. Pidgeon, ed. it., Edizioni di Comunità, Torino, 2001)

Una sintesi dello schema di analisi di Turner è riproposta in un suo precendente articolo (Turner 1976): in un suo articolo Karl Weick analizza in modo appassionato il lavoro di Barry Turner (Weick 1998). L’inatteso, dunque, sconvolge profondamente la metafora meccanicistica che vorrebbe dominare lo studio delle organizzazioni e la struttura delle società. Di rado otteniamo i risultati che ci attendiamo e questo vale sia per le ricerche che facciamo (il richiamo alla serendipity è evidente - sic!) sia con riferimento all’oggetto delle nostre indagini: crisi finanziarie mondiali, attacchi terroristici, disastri naturali (terremoti, uragani o tsunami) interessano specifiche organizzazioni e “costano” vite umane; su scala minore, quotidianamente ogni organizzazione ha a che fare con “crisi” i cui “costi” sono da considerare in termini di reputazione, di quote di mercato o di carriere (basti pensare al funzionamento di un dipartimento universitario o di una qualunque altra istituzione perché il mio “lettore professionale” possa farsi una idea di quel che sto proponendo) (Weick, Sutcliffe 2007).

Per fornire un esempio del tipo di materiale che utilizzo e del tipo di indagini che pratico, propongo quattro “storie” su cui sto lavorando da qualche tempo:

  • lo spettacolo teatrale di Marco Paolini “Vajont. 9 ottobre 1963/orazione civile”;
  • la pubblicazione del “The 9/11 Commission Report” e dell’inchiesta del “Columbia Accident Investigation Board (CAIB)” (volume 1 CAIB);
  • il documentario di Erroll Morris, “The Fog of War. La guerra secondo McNamara”, Sony Pictures Classics (2003) e il materiale del progetto “virtualjfk.com”.

Per l’analisi del disastro del Vajont, in quello che costituisce una sorta di “manifesto" di questo progetto di ricerca, nato in collaborazione con Daniel Pittino, è stato utilizzato lo schema di Barry Turner: le vicende della tragedia sono state interpretate come la manifestazione del “fallimento di sistemi eterogenei nei quali si intrecciano componenti tecniche, sociali, organizzative e istituzionali” tra loro interdipendenti. Oltre alla ricostruzione presentata magistralmente da Marco Paolini nel suo spettacolo, ho raccolto il materiale d’archivio e le diverse pubblicazioni che sono stati prodotti negli anni. Qui di seguito vi sono alcuni riferimenti per quanti volessero appassionarsi ad una vicenda che, al di là di tutto, merita di restare nella nostra memoria collettiva:

  • Lucidi A. (a cura di), (2003), Commissione Parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont. Inventario e documenti. Con CD-ROM, Rubbettino.
  • Merlin T. (1997), Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, Cierre Edizioni, Verona.
  • Paolini M., Vacis G. (1997), Il racconto del Vajont, Garzanti, Milano.
  • Raberschak M., Mattozzi I. (2009), Vajont dopo il Vajont (1963-2000), Marsilio.
  • Raberschak M. (2003), Il grande Vajont, Cierre Edizioni.
  • Semenza E. (2005), La storia del Vajont raccontata dal geologo che ha scoperto la frana, K-Flash.

Le successive due vicende hanno una ulteriore comune base interpretativa. Il rapporto della commissione d’inchiesta sui tragici fatti dell’11 Settembre 2001 e il rapporto sull’incidente dello shuttle Columbia nel 2003 costituiscono altrettante situazioni in cui indagare: i processi decisionali e la formulazione delle strategie ai più vari livelli organizzativi e istituzionali (Allison, Zelikov 1993); il rapporto tra identità organizzativa e rischio tecnologico (inteso in senso ampio nel momento in cui si fa riferimento alla presenza di armi di distruzione di massa nei “contesti” delle decisioni) (Vaughan 1990; Vaughan 1996); l’inconsistenza di meccanismi di controllo pensati per organizzazioni ben diverse da quelle che, con le parole di Weick e Sutcliffe, “non hanno altra scelta se non funzionare in modo affidabile” (2007) (Vaughan 2005; Weick 2005). Alcuni riferimenti bibliografici per inquadrare questi aspetti:

  • Allison G. T., Zelikov P. (1993), Essence of Decision: Explaining the Cuban Missile Crisis, 2nd edition, Pearson Education, New York.
  • Perrow C. (1986), Complex Organizations: A Critical Essay, McGraw-Hill New York.
  • Starbuck W.H., Farjoun M. (2005), Organization at the limit. Lessons from the Columbia Disaster, Blackwell Publishing, London.
  • Vaughan D. (1996), The Challenger Launch Decision: Risky Technology, Culture, and Deviance at NASA, University of Chicago Press, Chicago

L’escalation delle “Guerre in Iraq” e in modo particolare la seconda Guerra del Golfo con l’invasione del Paese nel 2003 può essere analizzata proprio alla luce di queste chiavi di lettura. Nel loro magistrale caso studio sulla crisi missilistica di Cuba, Allison e Zelikov (mi riferisco alla seconda edizione del 1993) hanno analizzato le medesime vicende da tre prospettive: i) del “rational actor”; ii) dell’“organizational behavior”; iii) e delle “governmental politics”. Evidenziando fino a che punto approcci differenti possano fornire risposte diverse alle stesse domane, gli autori sottolineano come i differenti punti di vista non sono altro che modalità diverse attraverso cui gli studiosi problematizzano un fenomeno, prestando attenzione, di volta in volta, all’aspetto che più facilmente può condurre ad una risposta ragionevole (più o meno attesa). Ad esempio:

«Typically, what is to be explained is identified only in the most general terms, for example, the blockade. Relevant features of the occurance are left to an unstated, most-often implicit, appendix. So, for the archetypal Model I analyst, “blockade” is an aggregate act. The perceived context, formal decision, and implementation are aspects of one coordinated rational choice. The Model II and Model III analysts insist on splitting up the blockade into component elements. The Model II analyst focuses more on questions, such as when the missiles were discovered, how the relevant organizations defined the options for action, and the details of the blockade’s execution. The Model III analyst focuses on sharply different views among decionmakers about the issue Soviet missiles posed, as well as on competing judgments about what was to be done.

To explain the blockade, the Model I analyst examines the U.S. strategic calculus: the problem posed by the Soviet missiles, relevant American interests, the relation to other commitments like the defense of Berlin and U.S. capabilities versus those of the Soviet Union [...]. For our Model II archetype, given the need for action, the particular “solution” is the by-product of organizational behabior. The analyst emphasizes organizational capacities and constraints both in choice and implementation. [...] The Model III analyst makes vivid the action of players in the relevant games that produced pieces of the collage that is the blockade. (1993: pp. 385-386).

Con riferimento ai materiali che ho richiamato in precedenza, in quale modo analizzare l’intervento di “esperti” chiamati sul campo a fornire una soluzione che consenta di mantenere una “piena consapevolezza” rispetto a ciò che sta avvenendo in un contesto “critico”? (Weick, Sutcliffe 2007). In questa prospettiva, le vicende connesse al ruolo della Commissione di monitoraggio, verifica e ispezione delle Nazioni Unite per l’Iraq (Unmovic), guidata Hans Blix e raccontate dallo stesso direttore nel suo libro Disarming Iraq (2004), costituiscono una interessante situazione di analisi nel momento in cui ci si domanda: “cosa sarebbe successo se il Consiglio di Sicurezza dell’ONU avesse autorizzato l’intervento armato e l’occupazione per poi scoprire che in Iraq non c’erano armi proibite?”. Nel marzo del 2003, la maggioranza dei paesi ONU non riteneva infatti giustificato un intervento armato; mentre Stati Uniti e Gran Bretagna pensavo di aver fornito alla comunità internazionale prove inconfutabili sulla presenza di materiale proibito in diversi siti controllati da Saddam. In seguito, tali prove non trovarono conferma nel lavoro degli ispettori: il rapporto Butler e le vicende legate alla scomparsa del dr. David Kelly, consulente britannico, raccolte nel rapporto Hutton, costituiscono due interessanti documenti ufficiali. Quali tipi di insegnamento restituisce la vicenda di un organismo chiamato a decidere sulle giustificazioni di una guerra? Come interpretare il ruolo dell’Unmovic e il suo parziale fallimento in questo complesso scenario di rapporti istituzionali su scala planetaria? Cosa possiamo imparare dalla consapevolezza (mindfulness) con cui gli “esperti” producono performance “affidabili”, riducendo la difficoltà delle prove che sono chiamati a sostenere? (Weick, Roberts 1993).

Il drammatico racconto di The Fog of War e i materiali del progetto "virtualjfk.com" (un caso affascinante di storia controfattuale) costituiscono un eccellente laboratorio in cui “simulare” (attraverso l’utilizzo di documentari costruiti con scopi eminentemente didattici e formativi) tutti i più complessi temi che continuano a dividere, a volte in modo anche abbastanza radicale, gli studiosi della decisione. Nella prefazione al libro Prendere decisioni (ed. it., 1998, Il Mulino), lo stesso James March scrive:

«Può rivelarsi utile sottolineare quattro temi (non interamente indipendenti fra loro) che continuano a dividere piuttosto radicalmente gli studiosi della decisione.

Il primo punto è se le decisioni debbano essere ricondotte a processi di scelta o a processi basati su regole. I decisori perseguono una logica della conseguenza, compiendo una scelta fra alternative di cui hanno valutato le conseguenze in base alle loro preferenze, oppure perseguono una logica dell’appropriatezza, assumendo identità o ruoli attraverso il riconoscimento di situazioni e regole che consentono di far combaciare comportamenti appropriati a specifiche situazioni?

Il secondo punto è se il processo decisionale sia rappresentato meglio da chiarezza e coerenza o da ambiguità e incoerenza. Le decisioni sono occasioni in cui gli individui e le istituzioni trovano coerenza e riducono il margine di equivoco, oppure sono occasioni in cui incoerenze e ambiguità vengono esibite, sfruttate e ampliate?

Il terzo punto è se la decisione sia un’attività strumentale o interpretativa. Le decisioni devono essere comprese prima di tutto come parte di un sistema di calcoli per la risoluzione di problemi, oppure come risposta al tentativo di costruire significati individuali e collettivi?

Il quarto punto è se gli esiti dei processi decisionali debbano essere visti come il risultato attribuibile alle azioni di attori autonomi o alle proprietà sistemiche di un’ecologia di interazioni. E’ possibile descrivere decisioni che risultano da intenzioni, identità, interessi di attori indipendenti, oppure è necessario spostare l’attenzione sui modi in cui convivono individuali, organizzazioni e società?».

In particolare, le vicende narrate nel documentario The Fog of War e gli episodi richiamati nei racconti del protagonista, attraversano decenni di storia del XX secolo, assumendo il punto di vista di uno dei principali attori delle decisioni politiche americane di quel periodo. Con queste parole lo stesso McNamara apre il trailer del documentario: 

«At my age, 85, I’m at [an] age where I can look back and derive some conclusions about my actions. My rule has been to try to learn, try to understand what happened. Develop the lessons and pass them on».

Le undici “lezioni di vita e sulla guerra” di Robert S. McNamara costituiscono un incredibile compendio sull’essenza della decisione, narrato in prima persona da colui che, Presidente della World Bank tra il 1968 e il 1981, fu soprattutto a lungo Segretario di Stato USA e responsabile di alcuni dei più tragici scenari di guerra del secolo scorso: dalla Seconda Guerra Mondiale alla Guerra Fredda, dalla scelta di lanciare le bombe su Hiroshima e Nagasaki alla Guerra in Vietnam, dalla Crisi di Cuba alla “strategia della tensione” per la gestione dell’arsenale atomico e delle armi di distruzione di massa. Qui di seguito alcuni materiali relativi a questa controversa figura:

  • Blight J.G., Allyn B.J., Welch D.A. (2002), Cuba on the Brink: Castro, the Missile Crisis, and the Soviet Collapse, 2nd ed., Rowman & Littlefield, Lanham, MD.
  • Blight J.G., Lang J.M., Welch D.A. (2009), Vietnam If Kennedy Had Live. Virtual JFK, Rowman & Littlefield Publishers
  • McNamara R.S., VanDeMark B. (1996), In Retrospect: The tragedy and the lessons of Vietnam, 2nd ed., Vintage Books, NYC.
  • McNamara R.S., Blight J.G., Brigham R.K., Biersteker T.J. (1999), Argument Without End: In search of answers to the Vietnam tragedy, PublicAffairs, NYC.
  • McNamara R.S., Blight J.G. (2003), Wilson’s Ghost: Reducing the risk of conflict, killing, and catastrophe in the 21st century, 2nd ed., PublicAffairs, NYC.