Questo progetto di ricerca si sviluppa in sostanza lungo due filoni: da un lato, una prospettiva che, per quanto variegata, ha già una sua legittimazione a livello di comunità scientifica internazionale, quale la Consumer Culture Theory (CCT); e dall’altro, una proposta molto più recente, a cavallo tra Transformative Consumer Research (TCR) eCritical Marketing Studies  (CMS) che, conforme con la precedente, si focalizza su alcune tematiche che mi sono particolarmente connaturate.

CCT e TCR (e la sua più ampia variante dei CMS) si sviluppano nell’ambito della Association for Consumer Research (ACR), quindi all’interno di un ambiente “culturale” e “scientifico” sostanzialmente condiviso e omogeneo. Questa tabella, elaborata a partire dall’articolo di Arnould e Thompson (2005), già citato in precedenza, sintetizza i programmi di ricerca della CCT. Per introdurre, invece, la prospettiva della TCR mi affido all’articolo di David Mick (Mick 2005), apparso sul vol. 33 dell’Advances in Consumer Research: all’epoca presidente della ACR, David Mick introdusse questa sorta di “manifesto” della TCR in occasione dell’annuale “Presidential Address”.

Al momento, il mio richiamo esplicito a queste “etichette” va inteso sostanzialmente come una generale ammissione di intenti piuttosto che come una dichiarazione (per altro, unilaterale - sic!) di appartenenza ad una comunità scientifica più o meno istituzionalizzata.

Le questioni della rappresentazione delle/nelle consumer research e l’introduzione della metafora testuale negli studi di marketing costituiscono, anche in questo programma, elementi fondamentali della mia riflessione. Un eccellente testo su questo tema è quello curato da Barbara Stern, per la collana Routledge su Interpretive Marketing Research, straordinaria studiosa purtroppo recentemente scomparsa (Stern 1997). Inoltre, due articoli seminali sul lato “esperienziale” dei processi di consumo sono quelli di Elizabeth Hirschmann e Morris Holbrook (1982a; 1982b).

Cosa significa prendere seriamente in considerazione l’introduzione del concetto di “esperienza” negli studi di marketing e nelle ricerche sui processi di consumo? Due situazioni che ho preso in considerazione di recente possono risultare utili a riproporre questa questione in modo forse inatteso: lo “strano caso” del ritorno de “Le Nozze di Cana” a S. Giorgio Maggiore a Venezia (articolo 1; articolo 2); e la controversia sull’autenticità del famoso “papiro di Artemidoro” (articolo 1; articolo 2). Il materiale collegato può risultare utile per ricostruire, almeno in generale, i contorni delle due vicende.

Le questioni, quanto mai problematiche, della riproducibilità delle opere d’arte e dell’autenticità “filologica” di un reperto archeologico sono strettamente connesse tra loro ed hanno molto da restituire al dibatto sull’autenticità di un prodotto culturale e, più in generale, sulla “critica testuale” collegata al concetto di esperienza di consumo.

La “metafora testuale” è stata introdotta negli studi di marketing da quanti hanno inteso fornire un quadro epistemologico e metodologico sensato all’introduzione di un concetto così sfuggente ma evocativo come quello di esperienza (Hirschman, Holbrook 1992; Holbrook, Hirschman 1993).

A tal proposito la seguente storiella è una eccellente situazione per avviare un ragionamento abduttivo (Eco 1979, Lector in fabula, Bompiani). 

Per una "semiotica del falso" (Eco 1990)

«Nel 1921, Picasso afferma di aver dipinto un ritratto di Honorio Bustos Domeq. Fernando Pessoa scrive di aver visto il ritratto e lo loda come il grande capolavoro mai prodotto da Picasso. Molti critici cercano il ritratto, ma Picasso dice che è stato rubato.

Nel 1945, Salvador Dalì annuncia di aver scoperto questo ritratto a Perpignano. Picasso riconosce formalmente il ritratto come sua opera originale. Il ritratto viene venduto al Museum of Modern Art come: “Pablo Picasso, Ritratto di Bustos Domeq, 1921”.

  1. Picasso e Pessoa hanno mentito perché nessuno nel 1921 ha dipinto un ritratto di Domeq.
  2. In ogni caso, nessun Domeq poteva venir ritratto nel 1921 perché questo personaggio è stato inventato da Borges e Bioy Casares durante gli anni quaranta.
  3. Picasso ha in realtà dipinto il ritratto nel 1945 e lo ha falsamente datato 1921.
  4. Dalì ha rubato il ritratto e lo ha copiato (ineccepibilmente). Immediatamente dopo ha distrutto l’originale.
  5. Ovviamente, il Picasso del 1945 ha imitato perfettamente lo stile del primo Picasso e la copia di Dalì era indistinguibile dall’originale. Sia Picasso che Dalì hanno usato tela e colori prodotti nel 1921.
  6. Quindi, l’opera esposta a New York è il falso deliberato di un falso deliberato d’autore di un falso storico.

Nel 1986, viene rinvenuto un testo inedito di Raymond Queneau che afferma: 

  1. Bustos Domeq è esistito realmente, tranne che il suo vero nome era Schmidt. Alice Toklas nel 1921 lo ha presentato maliziosamente a Braque come Domeq, e Braque lo ha ritratto sotto questo nome (in buona fede), imitando lo stile di Picasso (in mala fede).
  2. Domeq-Schmidt è morto durante il bombardamento di Dresda e tutti i suoi documenti di identità sono andati distrutti in quella circostanza.
  3. Dalì ha realmente riscoperto il ritratto nel 1945 e lo ha copiato. Più tardi ha distrutto l’originale. Una settimana dopo, Picasso ha fatto una copia della copia di Dalì; poi la copia di Dalì è stata distrutta. Il ritratto venduto al MOMA è un falso dipinto da Picasso che imita un falso dipinto da Dalì che imita un falso dipinto da Braque.
  4. Egli (Queneau) ha appreso tutto questo dallo scopritore dei diari di Hitler» (Eco 1990, IV ed., p. 189).

Tenete conto, inoltre, dei seguenti elementi di partenza: la storia è sicuramente falsa, o quantomeno, inventata; per quanto tutti i protagonisti della storia siano “realmente” vissuti, oggi ognuno di loro è anche “realmente” morto. L’unico “soggetto” a cui possiamo fare riferimento è, ovviamente, il MOMA, presso il quale, però, alcun quadro denominato “Ritratto di Bustos Domeq” o in un qualche modo riconducile alla storia precedente è di fatto mai stato esposto. 

In questa sorta di acutissimo pastiche Umberto Eco mischia in modo ingegnoso buona parte delle sue “passioni” letterarie e artistiche (I limiti dell’interpretazione, 1990, Bompiani). Per chi volesse approfondire la cosa consiglio il romanzo del prof. Eco “Il cimitero di Praga”, illuminante anche ai fini della presente indagine: comprendere l’utilità di una semiotica del falso per analizzare, in una prospettiva culturale, l’autenticità di una esperienza di consumo.

In estrema sintesi, affrontare i criteri di riconoscibilità di una esperienza autentica attraverso una prospettiva semiotica (Mick 1986; Grayson, Martinec 2004) significa riconoscere che si tratta di un fenomeno eminentemente culturale, interpretativo: consumatori da un lato e produttori dall’altro utilizzano il meccanismo della cooperazione interpretativa (Lector in fabula, di U. Eco, 1979) per generare il significato delle esperienze-come-testo; fino a recuperare una intuizione di Gilmore e Pine (2007) ma ridefinendola in un quadro teorico adatto, vale a dire considerando fino in fondo la metafora dell’esperienza-come-teatro in cui la cooperazione interpretativa fa riferimento ad una doppia serie di codici, il testo drammatico e il testo spettacolare dell’esperienza di consumo (sulla semiotica del teatro: K. Elam, The Semiotic of Theatre and Drama, Methuen, 1986).

In secondo luogo, gli argomenti affrontati hanno come filo conduttore l’evoluzione del concetto di Working Consumers (Cova, Dalli, 2009a, 2009b). La comprensione del quadro teorico costitutivo del concetto e l’esigenza di tracciarne una possibile evoluzione dal punto di vista metodologico ed empirico sembrano collegarsi con il superamento del rapporto struttura/agente negli studi marketing e nelle consumer research. Inoltre, tutto ciò passa per l’introduzione di quei filoni della letteratura che affrontano alcuni degli argomenti più attuali della disciplina: 

  • il rapporto “critico” tra marketing esperienziale ed esperienze di consumo (Cova, Dalli 2009b; Peñaloza et al. 2012); 
  • l’idea di un practice approach to markets (MacLaran et al. 2009; Araujo et al. 2010) e di mercato come “costruzione collettiva” (Peñaloza, Venkatesh 2006); 
  • le configurazioni alternative o complementari al mercato per governare la relazione tra produzione e consumo in termini di co-creazione del valore (Cova, Dalli 2009a; Martin, Schouten 2014); 
  • l’idea di linking value in opposizione al valore di scambio o al concetto stesso di valore d’uso (Cova 1997); 
  • il ruolo della dimensione collettiva dei consumi in termini di psicologia sociale ed etno-sociologici (Cova et al. 2007; Peñaloza et al. 2012). 

Questi specifici temi si collegano ad una transizione di ordine ontologico ed epistemologico prima ancora che teorica ed empirica (Maclaran et al. 2009; Bajde 2013). L’idea di performativity (Callon 1998) nel marketing è riconducibile a ciò che Peñaloza e Venkatesh (2006) definiscono: «a more radically transformative marketing practice that is socio-historically situated, culturally sensitive, and organic, in accounting for and adapting to contemporary global, technological, and socio-cultural developments» (p. 299). 

Al di là delle logiche del c.d. “consumo di massa”, i consumatori-bricoleurs (richiamando una espressione di M. De Certeau) sono molto più abili di quanto siano disposti ad accettare gli studiosi di marketing ad “appropriarsi” dei significati di cui gli oggetti sono intrisi (McCracken 1988) e a farne gli “usi culturali” più impensati e, spesso, eversivi o antagonisti quando li inseriscono ad “ammobiliare” i rispettivi “mondi possibili” (U. Eco, Trattato di semiotica generale, 1975; Sei passeggiate nei boschi narrativi, 2004). Sull'idea di co-creation e sulla partecipazione (non banale) del consumatore ho avuto modo di richiamare l'interessante prospettiva dei "working consumers" (Cova, Dalli 2009). 

Per contro, i temi dell’avversione al consumo, del consumatore “eversivo” e “consapevole”, della sua capacità di co-partecipare con le imprese alla “trasformazione” dei mercati si collegano direttamente a fenomeni altrettanto attuali come, ad esempio, il c.d. crowdsourcing. Analizzando la questione dal versante delle aziende (Cova, Dalli 2009), queste hanno la possibilità di “estendere”, “dilatare” l'antico concetto di produzione/appropriazione del valore attivando un meccanismo di “(con)divisione del lavoro” che può diventare quantomeno controverso nel momento in cui coinvolge direttamente (e a volte in modo superficiale e non sempre consapevole) le coscienze della “folla” (“crowd”) dei consumatori (e tutto ciò non solo attraverso l’inevitabile e scontato riferimento ai “social network”). Questo tema risulta particolarmente delicato e appassionante se applicato all'analisi dei processi di produzione culturale e alla relazione tra organizzazioni artistiche e il loro pubblico (di spettatori/visitatori). Alcuni riferimenti utili possono essere alcuni dei lavori di Robert Kozinets: 

  • Kozinets, R.V. (2002), “Can Consumers Escape the Market? Emancipatory Illuminations from Burning Man”, Journal of Consumer Research, 29: 20- 38.
  • Kozinets, R.V., Handelman J.M. (2004), “Adversaries of Consumption: Cosumer Movements, Activism, and Ideology”, Journal of Consumer Research, 31: 691-704.
  • Kozinets, R.V., Hemetsberger, A., Schau, H.J. (2008), “The Wisdom of Consumer Crowds: Collective Innovation in the Age of Networked Marketing”, Journal of Macromarketing, 28: 339-354.
  • Kozinets, R.V., de Valck, K., Wojnicki, A.C., Wilner, S.J.S. (2010), “Networked Narratives: Understanding Word-of-Mouth Marketing in Online Communities”, Journal of Marketing, 74 (March): 71-89.

A voler estremizzare la questione, riprendendo quanto introdotto nel primo framework proposto (su una "vera" prospettiva knowledge based negli studi di management): il rischio è il passaggio dalla forza responsabilizzante della «intelligenza collettiva», in grado di produrre "cornici dotate di senso" alle nostre azioni; ad una sorta di «idiozia di massa» (sic!) pericolosamente omologatrice. 

Sul concetto di possesso, di extended self e per alcune interessanti declinazioni propongo questa selezione di articoli: Belk 1988; Belk et al. 1989; Belk 2010; Hirschman 1992; Visconti et al. 2010. Sul tema della rappresentazione del sé con particolare attenzione al mondo del digitale (del social networking e dell’evoluzione dei social media), propongo i saggi raccolti in due interessanti volumi di recente pubblicazione:

  • The Routledge Companion to Digital Consumption, edited by Russell W. Belk and Rosa Llamas (2013);
  • The Routledge Companion to Identity and Consumption, edited by Ayalla A. Ruvio and Russell W. Belk (2013)

La dimensione digitale dei processi di consumo, in concreto, permette inoltre di "mettere alla prova" diversi concetti tipici di questa prospettiva di analisi. In un articolo recente su JCR, (“Extended Self in a Digital World”), lo stesso Russell Belk suggerisce la necessità di un "conceptual update" con riferimento alle originarie nozioni di extended self (Belk 1988) e di sharing (Belk 2010). Nelle tabelle seguenti sintetizzo la proposta di Russell Belk (Summary of Digital Dimentions of the Extended Self) assieme ad un analogo percorso di analisi (sul quale sto lavorando da qualche tempo: Digital Consumers' Work) con riferimento alla già citata prospettiva dei Working Consumers (Cova, Dalli 2009). Su questi aspetti suggerisco inoltre la lettura di un trittico di lavori di una interessante studiosa, Sherry Turkle, attualmente "Abby Rockfeller Mauzé" Professor di Social Studies of Sciences and Technology al MIT di Boston:

  • The Second Self: Computers and the Human Spirit, Simon & Schuster, First edition, 1984 (The MIT Press, Twentieth Anniversary Edition, 2005)
  • Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, Simon & Schuster, 1997
  • Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other, Basic Books, 2011

Recentemente Sherry Turkle ha pubblicato il lavoro: Reclaiming Conversation. The Power of Talk in a Digital Era (2015, Penguin Press).

Nell’Introduzione di Alone Together, Sherry Turkle descrive in questi termini il collegamento tra i primi tre lavori, esplicitando come filo conduttore il tema del rapporto tra computer e persone:

«In The Second Self, I traced the subjective side of personal computers – not what computers do for us but what they do to us, to our ways of thinking about ourselves, our relationships, our sense of being human. From the start, people used interactive and reactive computers to reflect on the self and think about the difference between machines and peple. Were intellingent machine alive? If not, why not? In my studies I found that children were most likely to see this new category of object, the computational object, as “sort of” alive – a story that has continued to evolve. In Life on the Screen, my focus shifted from how people see computers to how they forge new identities in online spaces. In Alone Together, I show how technology has taken both of these stories to a new level. Computers no longer wait for humans to project meaning onto them. Now, sociable robots meets our gaze, speak to us, and learn to recognize us. They ask us to take care of them; in response, we imagine that they might care for us in return» (p. 2).

Cittadinanza attiva, consumo consapevole, creatività diffusa, intelligenza collettiva, saperi condivisi, scambio di conoscenze: sono tutte espressioni che stanno entrando prepotentemente nel linguaggio quotidiano (economico, politico, sociale), molto spesso però in modo banale o stereotipato, senza che vi sia una effettiva comprensione della portata dei fenomeni che evocano. Nel caso dei "nuovi media" (Belk, Llamas 2013) è particolarmente evidente quanti equivoci possa provocare un dibattito superficiale su queste questioni: a tal proposito propongo un testo piuttosto stimolante, il libro di Henry Jenkins, Cultura Convergente (Apogeo, 2007), con una intelligente "Prefazione" curata da Wu Ming appositamente per l'edizione italiana.

Per farsi una idea “critica” sulla complessità di questi temi propongo alcuni riferimenti bibliografici e consiglio la visione di due ottime inchieste di "Report", la fortunata trasmissione Rai condotta da Milena Gabanelli, di un documentario "made in USA" sulla trasformazione del sistema dei media, e di un eccellente "docu-film", di prossima uscita ma già presentato in una sezione del Festival di Berlino 2013:

  • Report, “Il prodotto sei tu”, di Stefania Rimini, puntata del 10 aprile 2011 (trascrizione della puntata) 
  • Report, “Consumatori difettosi”, di Michele Buono e Piero Riccardi, puntata del 12 dicembre 2010 (trascrizione della puntata)
  • "Page One. Inside The New York Times", di A. Rossi (USA 2011, 92 minuti), un documentario che racconta l'evoluzione del sistema dei media dall'interno della redazione di uno dei più importanti giornali del mondo;
  • "Slow Food Story", un film di Stefano Sardo (Italia 2013, 74 minuti), dedicato alla nascita e alla diffusione del famoso movimento fondato da Carlo Petrini 

Il tema della cooperazione interpretativa che caratterizza i processi culturali fa da filtro a tutti i lavori collegati a questo filone di ricerca. In particolare, i processi di branding e il brand meaning costituiscono il filo conduttore di una serie di indagini (WP #03, #04, #05 e #06) che, a partire dallo studio pilota sul fenomeno letterario di Tiziano Terzani, vorrebbero affrontare il fenomeno della “brand culture” (o dei cultural codes of branding) (Schroeder, Salzer-Mörling 2006). Alcuni eccellenti saggi possono essere sufficienti per farsi una idea abbastanza precisa su questo tema: Sherry 2005; Allen et al. 2008; Diamond et al. 2009.

Inoltre, molti dei temi collegati a questo filone di indagine vengono interpretati attraverso la prospettiva della sociologia della traslazione o actor-network theory/ANT (cfr. le Sezioni dei programmi di ricerca in corso). 

Working Paper, Series in “Marketing research & Consumer Experience”

[WP #01] “Fakes and Forgeries: The Authentic Side of Consumption Experiences” (slide-PDF)

Il progetto di ricerca introduce la “semiotica del falso” (à la U. Eco) per indagare il concetto di autenticità dell'esperienza di consumo a partire dal ruolo di "artefatti trasformativi" come nel caso di un prodotto/oggetto culturale. La riproducibilità delle opere d’arte o l’autenticità di un reperto archeologico restituiscono interessanti suggerimenti di metodo (ragionamento abduttivo/pensiero congetturale, “cooperazione interpretativa”, “critica testuale”/“metodo filologico”) per introdurre un “practice approach” anche negli studi di marketing (il processo di "autenticazione" come costruzione collettiva). 

[a] "In Search of the Lost Aura: Cultural Codes of Destination Branding"

[b] Lo sguardo dei "flâneurs": Working Consumers e costruzione collettiva degli spazi urbani

[c] «L'utopia della "Gorizia, Nizza austriaca": processi di brand meaning di una destinazione turistica" (first draftslide_PDF)

Questi lavori completano una serie di riflessioni attorno al tema del Destination Branding e sul “branding” come processo di significazione e fenomeno socio-culturale.

Principalmente il progetto si basa sulla raccolta di materiale d’archivio sulla "storia dei luoghi” e sull’evoluzione del turismo, nonché su materiale collegato al concetto di territorio e di luogo/spazio collettivo (ad es.: il concetto di spazio à la Lefebvre). Una delle ricerche prende spunto da alcuni episodi storici, ampiamente documentati, sul caso di Gorizia tra il primo Settecento e la fine dell’Ottocento, quando prendeva forma il mito della “Gorizia, Nizza d’Austria”. Anche questo lavoro, nell’attuale fase di elaborazione, si avvale della strategia di ricerca della Actor-Network Theory 

[WP #02]“Avere occhio per i relitti”: sulla rappresentazione del passato tra "Memory", "History" e "Forgetting". Il collezionismo, la storia degli oggetti, la “vertigine della lista”. Memoria/Nostalgia e Possesso/Identità nel consumer behavior. 

Per questo progetto di ricerca utilizzo prevalentemente tecniche di analisi etnografica basate su materiale audio e video: i) sia prodotto direttamente (attraverso riprese video e resoconti fotografici dei vari contesti di ricerca in cui mi trovo a lavorare come, ad esempio, nel caso dei progetti sul Festival di Avignone o sul Festival “vicino/lontano”); ii) sia realizzato da professionisti per le finalità le più varie, sotto forma di reportage, documentari, film, cortometraggi, archivi video, ecc.

Per comprendere le logiche d’adozione di questi importanti strumenti di lavoro sia nella fase di raccolta del materiale di ricerca sia nella fase di elaborazione di tale materiale multimediale per diventare fonte d’indagine nelle scienze sociali, rinvio al manuale di ricerca qualitativa per il marketing curato da Russell Belk (Belk 2006). Inoltre, propongo la lettura di un recente articolo dello stesso Belk, dedicato proprio ai documentary film (Belk 2011): la bibliografia di questo articolo, in particolare, è piuttosto completa e aggiornata.

A tal proposito, l’elenco seguente, per quanto parziale, fornisce un buon esempio del tipo di materiale che raccolgo e catalogo per questo progetto di ricerca:

  • il “podcast” della trasmissione radio della BBC “A History of the World in 100 Objects”, 103 episodi, ciascuno della durata media di circa 14 minuti, realizzati in collaborazione con il British Museum e andati in onda tra il Gennaio e l’Ottobre del 2010;
  • alcuni dei documentari del canale culturale televisivo franco-tedesco ARTE, sia della serie “Comprendre le monde” sia della serie “Echappées culturelles”, oppure i suoi canali tematici, come “Le monde arabe en révolution(s)”
  • ancora, alcuni reportage di ARTE dedicati al fenomeno della “Pop Culture”, alcuni dei quali, ad esempio, sono stati di recente doppiati e riproposti anche dalla televisione italiana, sul nuovo canale digitale di RAI 5 (“Miniskirt, lunga vita alla minigonna”; “Jeans, il fascino del pianeta blu”; “It-Girl, come nascono le tendenze”; “Geek, rivincita di una generazione”; “Spam, da dove arriva l’invasore").
  • documentari come "God Save My Shoes" (USA, 2011, 90 min.), sul "fenomeno di accumulo", di "shopping sfrenato" e di "attrazione fatale" verso le scarpe da parte del mondo femminile;
  • inoltre, diverse puntate delle fortunate trasmissioni RAI “Passepartout”, “Emporio Daverio” e “Il Capitale”, ideate e condotte dal noto critico d’arte e studioso Philippe Daverio.

[a] «The Collecting of Books in Consumer Behavior: "TimeSpace of Human Activity" on the History of Libraries» (working title, sic!). 

Il progetto di ricerca si concentra sul concetto di activity timespace proposto da Ted Schatzki (2010) per indagare "the nature of human activity, society, and history". In termini di contesto empirico e di unità di analisi, l'evoluzione socio-culturale della biblioteca si presta per collegare activity timespacee prospettiva dellaCCT attraverso i temi del "collecting of books" e dell'esperienza di lettura. Qui di seguito alcuni dei materiali da cui sto attingendo per sviluppare il progetto:

  • Agnoli A. (2013), La biblioteca che vorrei. Spazi, creatività, partecipazione, Editrice Bibliografica
  • Agnoli A. (2014), Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà, Editori Laterza
  • Crawford A. (2015), The Meaning of Library: A Cultural History, Princeton University Press.
  • Lankes R.D. (2014), L'Atlante della biblioteconomia, Editrice Bibliografica
  • Lankes R.D. (2016), The New Librarianship Field Guide, MIT Press
  • molto interessante è anche il blog di R. David Lankes
  • Campbell J.W.P. (2013), The Library: A World History, Thames and Hudson
  • la monumentale opera in cinque volumi più un "epilogo con indice generale", The History of the Library in Western Civilization (K, Staikos, 2004-2012, Oak Knoll Press)
  • l'opera in tre volumi The Cambridge History of Libraries in Britain and Ireland, (P. Hoare, ed., 2006, Cambridge University Press)
  • Staikos K. (2000), The Great Libraries: From Antiquity to Renaissance 
  • qualche spunto specifico in chiave CCT è presente in uno stimolante libro edito da Stephen Brown nel 2006: Consuming Books. The marketing and consumption of literature, Routledge. 

[b] «"From Objects to Things" in the Book World of Aldus Manutius (1494-1515): Philology, Cultural Entrepreneurship, and Institutional Dynamics in Markets» (figure 1; table 1; table 2; table 3; table 4).

  • first draft: "The World of Aldus Manutius (1494-1515), a Renaissance Publishing Venture: Materiality, Cultural Entrepreneurship, and Institutional Dynamics in Markets" (slides 2017; paper, 2017)
  • "Market system dynamics, 'sociology of texts', and materiality of the book: Venice and the Renaissance printing industry" (short paper_July 2017; slides_October 2017)

[c] "Consuming History" and "A History of the World in 100 Objects" (British Museum): Boundary Objects, Translation and Institutional Work (draft/short paper; slides(table 1:consuming history and institutional work; il sito del British Museum;). Alcuni riferimenti teorici su "material culture as text" e "textual approach to things":

a) sull'archeologia come "discipline of things":

  • de Groot J. (2009), Consuming History. Historians and heritage in contemporary popular culture. London: Routledge
  • Olsen B. (2013). In Defense of Things. Plymouth (UK): AltaMira Press.
  • Olsen B., Shanks M., Webmoor T. (2012). Archaeology: The Discipline of Things, University of California Press.                                   
  • Shanks M., Tilley C. (1987), Social Theory and Archaeology, Albuquerque: University of New Mexico Press.
  • Shanks M., Tilley C. (1987/1992) Re-Costructing Archaeology: Theory and Practice, Second Edition, Cambridge: CUP

b) su "materiality & performativity" nei Management & Organization Studies (MOS) (e prospettiva dei "boundary objects"):

  • Barad K. (2003), "Posthumanist Performativity: Toward an Understanding of How Matter Comes to Matter". Signs: Journal of Women in Culture and Society, 28(3), pp. 801-831.
  • Monteiro P., Nicolini D. (2014). “Recovering Materiality in Institutional Work: Prizes as an Assemblange of Human and Material Entities”. Journal of Management Inquiry, 24(1), 61-81.    
  • Nicolini D. (2012). Practice Theory, Work, and Organization. Oxford: OUP.    
  • Nicolini D., Mengis J., Swan J. (2012). “Understanding the Role of Objects in Cross-Disciplinary Collaboration”. Organization Science, 23(3), 612-629. 
  • Star S.L., Griesemer J.R. (1989). “Institutional Ecology, ‘Translation’, and Boundary Objects: Amateurs and Professionals in Berkeley’s Museum of Vertebrate Zoology”. Social Studies of Science, 19(3), 387-420

[d] «"Romantizzare il passato" al Festival di Avignone: pubblico mediatore tra rinnovamento nostalgico e politica culturale» (vedi: Working Paper #01, Series in “Knowledge-Based View of the Firm”)

[WP #03] “Through the Looking-Glass, and What a Brand Community Found There: Articulating the Meanings of Tiziano Terzani’s Culture of Consumption” (fig. #01; fig. #02; fig. #03)

[a] “Le strutture costitutive e l’evoluzione delle relazioni nella brand community dei lettori di Tiziano Terzani” (slide-pdf) (articolo: draft per la consulazione)

[b] “Culture Brand Community: The Case of Tiziano Terzani’s Culture of Consumption” (slide-PDF; draft articolo)

[c] “The Mirrors of Consumer Identity: Articulating the Meanings of «Terzani International Literary Prize’s» (fig. #04; draft articolo)

La figura allegata fornisce una rappresentazione del processo di branding come fenomeno socio-culturale. Per analogia con la felice formula che K. Weick utilizza per introdurre i processi di sensemaking/organizing (1979/1995), si perviene ad una visione culturale e socialmente costruita del branding se (Sherry 2005): il “dire che viene prodotto” assume la forma di esperienze presenti (brand essence); il “vedere ciò che si è detto” si manifesta attraverso prodotti culturali (brand image); e le cornici di senso che “fissano le conclusioni” vengono rintracciate nei contesti culturali prodotti dal processo stesso (brandscape). In altri termini, con questo gioco linguistico è possibile esplicitare le proprietà che caratterizzano il concetto di branding, inteso come un processo: 1) costitutivo delle identità; 2) di attori socialmente coinvolti; 3) ad istituire retrospettivamente; 4) un ambiente (consumo) dotato di senso; 5) sulla base di un flusso di esperienza; 6) continuamente selezionato; 7) in modo plausibile più che accurato.

[WP #04] "Reassembling the social: movimenti sociali e working consumers tra narrazione, identità e azione collettiva" (tabella 1a e tabella 1b: un programma di ricerca sui SMs; tabella 2: prototipi di SMs) (first draft; slide_PDF)

[a] (in progress), «"Nella bolla dei filtri... il prodotto sei tu": working consumers nell'era del consumo digitale» (Primo draft articolo: Please don’t quote or use without author’s permission)

  • Pariser E. (2011), The Filter Bubble. What the Internet Is Hiding From You, The Viking Press, New York, trad. it., Il Filtro, Il Saggiatore, Milano, 2012
  • www.thefilterbubble.com

[b] Consumatori digitali e digital labor: la "vita sociale" degli adolescenti sul web (da un lavoro di dana boyd)

[c]"Insieme ma soli" (S. Turkle): extended self e possesso digitali negli studi di consumer behaviour

[d] "Arduino" e il movimento dei makers: extended self e working consumers tra "software culture" e "digital labor" (Primo draft; slide_PDF)

  • Figura 1 (Il materiale di ricerca); Tabella 1 (Il lessico della sociologia della traslazione); Tabella 3a (Digital Dimensions of Extend Self, by Russell Belk); Tabella 3b (Digital Consumers' Work)

[e] (in progress), "Arduino" e processi di market creation: Working Consumers (WCs), "traslazione" e Institutional Work (IW)" (extended abstract) (slide).

[f] (in progress), "Drammatico e spettacolare nelle esperienze di consumo: il senso del tragico nelle consumer research", (draft/note di lavoro sul Festival di Avignone)

[g] “PerFiducia: l’essenza del consumer crowding, tra brand meaning e community management” 

una sintetica rassegna stampa del progetto: progetto 2009 (articolo 1, articolo 2); progetto 2011 (articolo 3; articolo 4); Viaggio in Italia. Alla ricerca della identità perduta (ebook del progetto)

Bibliografie ragionate (in progress)

Alcuni manuali italiani

  • Addis M. (2005), L’esperienza di consumo. Analisi e prospettive di marketing, Pearson Education.
  • Carù A. (2007), Consumo e marketing dei servizi. L'evoluzione verso esperienze e soluzioni, Egea.
  • Dalli D., Romani S. (2004), Il comportamento del consumatore. Acquisti e consumi in una prospettiva di marketing, Franco Angeli.

Handbook "internazionali"

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  • McLaran P., Saren M., Stern B., Tadajewski M. (2010), The Sage Handbook of Marketing Theory, Sage. 
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Prospettive teoriche/Programmi di ricerca

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  • Hirschman E.C., Holbrook M.B. (1992), Postmodern Consumer Research. The Study of Consumption as Text, Association for Consumer Research/Sage.
  • Holbrook M.B., Hirschman E.C. (1993), The Semiotics of Consumption, Mouton de Gruyter.
  • McCracken G. (1988), Culture & Consumption, Indiana University Press.
  • Schroeder J.E., Salzer-Mörling M. (2006), Brand Culture, Routledge. 
  • Stern B.B. (ed.), (1997), Representing Consumers, Routledge.